Soltanto risaie immense ed umide
davanti ai miei occhi
esausti
mentre lascio svanire alle
mie spalle
l’umiliazione del campo di
rieducazione
inondato dalla fatica e
dalle mie lacrime
ogni qualvolta mi tornava
alla mente
l’orrore degli eccidi a
Phnom Penh
e la crudeltà delle
deportazioni di massa.
Non leggevo alcun sentimento
negli sguardi vuoti dei khmer rossi
fanatici esecutori di
un’utopia violenta
e della malsana dottrina di
Pol Pot
con la quale vedevo
scivolare la Cambogia
ad inseguire secoli già
trascorsi
e le preghiere che rivolgevo
al Buddha
non arrivavano mai a
destinazione.
Ma seppur annichilito dalla disperazione
la rassegnazione non mi ha
mai sconfitto
mentre percosso e denutrito
lavoravo alla raccolta del
riso
e la germogliazione del mio
sogno
di vedere risorgere dalle
ceneri comuniste
il superbo ed orgoglioso
regno di Angkor
e la libertà nell’intera
Kampuchea.
E sono giunto alle pendici dei monti
dopo avere oltrepassato i
templi buddisti
ed i cadaveri dei “corpi che
scompaiono”
attraverso sentieri
coltivati con le mine
fino al confine con la
Thailandia amica
con il cuore oramai privo di
gioia
e la mia apatia nel ritorno
al futuro
che non mi permette di
cancellare il passato.
N° 1070 - 1 maggio 2008
Il Custode
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